Chiesa Arcipretale di Pedavena
La chiesa Arcipretale di Pedavena è dedicata a S. Giovanni Battista. L’attuale edificio sacro risale al 1757, quando
fu iniziata la costruzione, e fu consacrato nel 1768. Progettata dall’arch. Antonio De Boni, la chiesa fu eretta in posizione elevata su
Memorie sulla costruzione
Allla sinistra orografica del Colmeda sul medesimo luogo della precedente benché l’abside sia rivolta verso settentrione anziché verso Gerusalemme. È raggiungibile dalla strada per una significativa scalinata d’ingresso. In precedenza, presumibilmente già dal secolo XIII, vi era un’altra chiesa di modeste dimensioni. Il campanile ha origini cinquecentesche ma fu sottoposto a diversi interventi di completamento e di restauro fino a questo secolo. L’assetto parrocchiale ha subito una lunga trasformazione e infatti se ci sono testimonianze nei secoli antecendenti al ‘500 che dimostrano la chiesa pedavenese dotata di un proprio patrimonio di beni, all’inizio del secolo XVI viene qualificata come cappellania alle dipendenze della cattedrale di Feltre. Otterrà piena autonomia solo nel 1723. Conserva tra le opere d’arte una pala attribuita al pennello di Alessandro Bonvicino detto il Moretto da Brescia. Raffigura il tema della Natività con i Santi Giovanni Battista e Zaccaria. (fonte, dalla rete)
(Dal libro Cronistorico della Parrocchia)
Era già stata incominciata la Magnifica Fabbrica della nuova Chiesa parrocchiale di S. Giovanni Battista, che ora vedesi quasi al suo compimento condotta, fin dall’anno 1757 sotto la prudentissima condotta dell’esperto e zelantissimo uomo Sign. Giovanni Cricco dalla Sega, il quale per 19 anni s’affaticò indefessantemente, come Procuratore, onde condurla al segno che trovasi, e con tanto maggior fatica, essendoché fu cominciata ed eretta essa fabrica col mezzo di sole elemosine spontanee di tutta la parrocchia, e volontarie rate gittate in vari tempi sulle persone e famiglie di Pedavena, Sega, Tornaolo, Murle e Carpene, le quali ville si erano unicamente impegnate a vedere condotta a fine una tal opera senza che vi fosse soldo preparato o comune, erario di sorta alcuna; dal che rilevasi che fu veramente in piacere di Dio una tale impresa, giacché la prosperò sì mirabilmente fino al giorno d’oggi.
Felici quelle comunità, nelle quali ritrovarsi almeno una Persona intelligente, savia e zelante sì del culto di Dio, che del pubblico Bene, mentre da questa si può sempre sperare buona riuscita e vantaggi considerabili, quando venga adoperata dalle Comunità stesse negli affari di qualche conseguenza, come qui successe più volte per la direzione del suddetto Cricco…
Chi per avventura si compiacerà di scorrere coll’occhi queste memorie, che per mio diporto ed a buon fine io vo così alla schietta raccogliendo quivi per lume della posterità, non s’aspetti più d’ora innanzi d’intendere inseritovi nell’intrapprese il Nome del benemerito, e più volte con giusto applauso ricordato Sign. Giovanni Cricco. Alli 14 di marzo dell’anno 1790, assalito già otto giorni prima da una impetuosa infiammazione di petto, con sommo discapito delle due beneficate Parrocchie di PEDAVENA e di S. GIUSTINA, ove appunto erasi allora portato come Procuratore per sollecitudine della Fabrica di quella Nuova Chiesa Arcipretale colla sua direzione piantata, e ridotta in coperto per la metà all’incirca, passò agli eterni riposi, da entrambe le Parrocchie con giusta ragione compianto.
Il suo cadavere riposa sotto li gradini del presbiterio della suddetta Nuova Chiesa di S. Giustina dirimpetto all’Altar Maggiore, e a parte destra di esso Altare presso l’ingresso della Sacristia nell’intercollunio vedesi inserita nel muro una Lapida in memoria di sì grand’uomo, dalla cui iscrizione rivelasi quanto egli fu benemerito presso la sua Famiglia, presso la Parrocchia di Pedavena, presso quella di S. Giustina, e presso il territorio tutto, di cui essendo stato cinque volte uno de’quattro Colmellari, mirabilmente maneggiò con fruttuosa riuscita i pubblici interessi.
Meno sensibile forse sarebbe riuscita una tal perdita alle suacennate Parrocchie ed al Pubblico, se in Pedavena, se in S. Giustina, se almen nel territorio tutto trovato si fosse un Uomo di tanta attività, di tanta destrosità e di tanto talento, che rimpiazzar potesse ad un dipresso il benemerito personaggio compianto.
Ancora dal Libro Cronostorico 1792:
Una dell’opere più vaghe, benché non delle più dispendiose, e che forma ornamento ed un risalto de’ più piacevoli nella chiesa Parrocchiale, ella è senza dubbio per universal opinione dei riguardanti, il Baldacchino sopra l’Altar maggiore. Opera che è questa dell’industre intagliatore Sign. Gioachino Sperandio di Canal S. Bovo di Primiero, travagliata (= lavorata) con uno studio e con grazia singolare.
Il merito del disegno d’esso Baldacchino è dell’esperto Professor Sign. Antonio De’ Boni di Villabruna il quale intense di estenderlo sul gusto di quel rinomato Baldacchino ch’esiste nella Cattedrale di Este. E di fatto persone intelligenti, che videro l’uno e l’altro, protestarono che questo di molto s’approssima a quello e per disegno e per bellezza di manifattura, e che per sveltezza e leggendaria sorpassa senza dubbio quel tanto dispendioso esistente sopra l’Altare del Santo di Padova.
La triade (= la Trinità) nel fondo del Baldacchino è lavoro del Sign. Bastianello figlio del Sign. De’ Boni, che la dipinse.
La spesa di questo fu supplita… col ritratto (= ricavato) dal getto sopra gli individui di tutta la Parrocchia.
Il valore dell’opera in tutto fu di ducati correnti N. 350… (cioè pari a 2.170 lire correnti). L’appensione di quest’opera alla cupola del Coro fu compìta alli 22 del mese di settembre dell’anno 1792.
Vecchie testimonianze
(informazioni riguardanti la parte di manutenzione al marmorino della Chiesa eseguita nell’anno 1798)
Degna di ricordanza è pure un’altra opera eseguita per abbellimento della Chiesa nostra parrocchiale nell’anno 1798.
Gl’interni muri di essa, e il vòlto tutto, trovavansi assai pregiudicati nei loro colori e nel bianco marmorino a cagione dell’umido da muri stessi tramandato, che aveva poco a poco i colori e il bianco assai macchiati, deturpati anneriti.
Si prestarono a noi per avventura due svelti muratori milanesi, la cui professione era appunto di biancheggiare con tutta franchezza qualunque chiesa o facciata la più alta senza alcuna armatura, ma coll’aiuto solo di scale e corde, e si offersero di biancheggiare e rinfrescare a colori, ed aggiungere opportunamente ove occorresse, sì le mura e il vòlto della Chiesa, come il coro e la facciata esterna.
Poco ci volle perché in alquanti divoti e benestanti si raccogliesse in brevissimo tempo la somma di lire 424 (cioè circa 70 ducati) delle quali si contarono lire 260 alli bravi milanesi così accordati per l’opera loro, ed il rimanente si dispendiò in colori, ed altre conseguenze, e soprattutto nel rinfrescar e donar di nuovo le croci della consacrazione di essa Chiesa, che erano diventate già affatto sparute (?) e assai nericce.
Ove regna la pietà e lo zelo del culto divino, s’intraprendono e si effettuano colla maggior facilità e prontezza le cose che ad altri sembrano neppur da tentarsi.
Si distingue molto in questo la Parrocchia di Pedavena, ed è da pregar Iddio che non si cangi il cuore di questi miei zelanti parrocchiani rapporto all’esterior culto divino.
L’organo Callido
Vicende storiche
Il primo strumento, aquistato nel 1794, fu opera del “Professore Tedesco Signor Bortolo Brandestini da Erbipoli di Sassonia”, organo dalle palesi ascendenze germaniche, ma sicuramente domiciliato a Bassano dal 1751 al 1766. Non si trattava però di un organo di nuova fabbrica, bensì di uno strumento di occasione: costruito infatti tra il 1755 e il1758 per la Chiesa Arcipretale di Borgo Valsugana, essendo “venuta in deliberazione la comunità di quel luogo di provvedere per sé un organo più grande”, venne venduto ad tal Francesco Gobbo da Cismon per il prezzo di 600 fiorini; costui,”colla lusinga di far bene il suo interesse e di venderlo per ducati forse mille”, fu consigliato a restaurarlo e ad ampliarlo con varie aggiunte e il rifacimento a nuovo della facciata. Tali consigli però non ebbero esito felice, poiché l’opera “restò giacente più anni in mano del suo padrone […] senza che ne potesse far l’esito”.
Fu quindi facile per i pedavenesi, una volta pervenuta la notizia che lo strumento”giaceva vendibile esposto in una chiesa di Bassano”, convincersi che l’acquisto potesse costituire un ottimo affare, e senza troppi indugi conclusero il contratto per il “discretissimo prezzo” di Lire 2700. Quando però i due procuratori della parrocchia Antonio Crico e Domenico Zanella si recarono a Bassano per farne il trasporto, si trovarono di fronte uno sgradevole imprevisto: l’organo era stato posto sotto sequestro da un creditore, per cui i nostri concittadini temettero “di non poter più conseguire l’organo”, ma, grazie a loro”desterietà e coraggio”, e all’esborso di “non piccole spese di foro”, in pochi giorni sbrogliarono la faccenda e condussero l’organo a Pedavena.
L’anno successivo (1795) “si pose mano al casson…onde potervi riponer l’organo”, e per la sua erezione e riattamento venne chiamato l’organaro Sebastiano Mianzan di Marostica. Le opere di sistemazione della cassa dell’organo e dell’orchestra, pur consistenti, non terminarono qui; essendo stato compiuto il lavoro “da grezzo”, occorreva portarlo a compimento. A ciò provvide, con competenza e generosità, nel 1802, l’architetto Francesco Menegazzi, con la preziosa ed altrettanto generosa collaborazione di Vincenzo Crico.
Intanto, nonostante fossero trascorsi solo sette anni dalla sua collocazione, e fosse già stato accordato nel 1797 dal Sig. “Leopoldo….[sic] di Valdenon”, l’organo necessitava di urgenti riparazioni.
Trovandosi in Feltre “il milanese Signor Antonio Croce Acconciaorgani”, e dichiaratosi costui disponibile ad eseguire i necessari lavori di sistemazione dello strumento per la somma di 60 ducati, (pari a circa 400 lire) si stabilì di compiere l’opera, nonostante le perplessità del parroco sull’effettiva entità della spesa e sulla sua opportunità, in un anno che sarebbe poi risultato di grande carestia,”ristretto e calamitoso”. Il Sig. Croce, uomo sicuramente di carattere umorale e bizzarro, come risulta dalle testimonianze dell’epoca lavorò assiduamente in loco per più di sei mesi, con interventi per nulla marginali.
Il lavoro “non fu inutile né spreggiabile”, ma la spesa finale, di £ 1940 “fu una disgustosa sorpresa” e, d’accordo con il cronista, possiamo quindi dire che “quel Sign. Antonio sia stato per noi in quell’incontro una † ” [sic]. Per fortuna, la “sempre comendabile comunità di Pedavena” contribuì alla spesa con una somma di denaro, ricavato dalla vendita di “due tagli di Piante di Pezzo nel Porcilot”, acquistate dai Conti Avogadro di Treviso.
Dopo queste vicende, un po’ travagliate, l’organo Brandestini dovette comunque assolvere alla sua funzione fino a quando, poiché”sembrava troppo piccola la mole dell’Organo e troppo esile il suono per corrispondere all’altezza della Chiesa” si fece strada l’idea di provvedere alla sua sostituzione con uno strumento nuovo. Le motivazioni in tal senso provenivano dunque dalle ridotte dimensioni e, più probabilmente, dall’esilità di suono dell’organo Brandestini, ma la spinta decisiva venne dall’ascolto del nuovo organo installato nel 1824 dai Fratelli Antonio e Agostino Callido di Venezia, (figli del più famoso Gaetano), nella parrocchiale di Fonzaso: Vincenzo Crico, “innamorato di tal suono […] dolce, acuto grave e spiritoso”, propose subito di acquistarne uno simile. I compaesani, forse spinti anche da un certo qual orgoglio di campanile, aderirono con entusiastici consensi all’idea; lo stesso Crico, deputato allo scopo, stipulò in breve tempo il contratto con i fratelli Callido, che nel 1824 installarono lo strumento nuovo con un costo iniziale di £ 3400 prezzo ritenuto più che buono, ma con una reale spesa finale di £ 4200 per via dell’ampliamento della tastiera e l’aggiunta di qualche registro non contemplato nel contratto.
E il risultato fu all’altezza delle aspettative, riscuotendo i più ampi e entusiastici consensi per la sua ottima resa sonora, evidenziata anche dalle buone qualità acustiche della Chiesa.
Nel libro Cronostorico non troviamo altre notizie sull’organo fino al 1915, anno in cui l’arciprete Don Giovanni Ferro riferisce che”l’organo della Chiesa Parrocchiale costruito nel 1824, dopo circa 40 anni fu ripulito dalla polvere con qualche rappezzatura al logorio delle pelli”.
Dalla stessa fonte apprendiamo inoltre che una revisione generale “eseguita con amore e competenza” si ebbe nel 1896 ad opera del “Signor Maestro Giovanni Meneghel, Organista della Cattedrale di Feltre”. L’intervento fu di una certa consistenza. Il fratello Valentino Meneghel nel 1914 compì altri interventi migliorativi.
Durante l’occupazione austro-ungarica, durato circa un anno, (dal novembre 1917 al novembre 1918), la comunità di Pedavena venne sottoposta a pesanti umiliazioni e saccheggi, mentre il patrimonio della chiesa parrocchiale dovette subire cospicui depauperamenti.
organo7Sul finire del 1919, l’organaro Giuseppe Pugina di Padova effettuò un sopralluogo in vista di necessari e urgenti lavori di riattamento, lo strumento si presentava in condizioni davvero deplorevoli. Ad una prima, sommaria, perizia e preventivo del 2/1/1920 seguirono ulteriori trattative. Non si fece niente per via della difficile situazione finanziaria di quegli anni. In una seconda perizia datata 22/11/1920 venne fatto il bilancio delle parti asportate all’organo.
Nell’agosto del 1920 si erano avviate le pratiche per ottenere il risarcimento dei danni di guerra al competente Commissariato. Dopo non poche procedure amministrative il 19/3/1924, il Commissariato per le riparazioni dei danni di guerra di Treviso comunicava alla Fabbriceria l’impegno a favore della parrocchia per la somma di £ 9461, per il recupero dell’organo. La somma non era però sufficiente per coprire la spesa per il pieno recupero dell’organo anche considerando il fatto che la fabbriceria era impegnata nell’edificazione dell’Asilo Infantile e di conseguenza al momento non ritenuto prioritario il recupero dello stesso.
Per assicurare una sia pur minima presenza musicale nella liturgia, la parrocchia provvede nel 1951 all’acquisto di un Harmonium, cercando nel contempo di affrontare il problema della sistemazione dell’organo. L’anno successivo cominciò la raccolta delle offerte e venne istituito un apposito comitato, ma solo nel 1954 si cominciarono a stringere i tempi per intraprendere il lavoro. Il 24 aprile 1955 si giunse all’inaugurazione del nuovo organo della ditta Zordan di Cogollo del Cengio (VI).
Per descrivere l’organo Zordan del 1955 basti dire che in quegli anni l’arte organaria non era presa particolarmente in considerazione sia per problemi economici sia perché la valorizzazione della musica antica era ancora a livello pionieristico. Gli organari di quel tempo si muovevano tra il neoclassicismo tecnologizzante delle grandi ditte e i modesti orizzonti delle ditte minori. L’intervento portato da Tarcisio Zordan fu un intervento che portò più danni che benefici. Ne uscì infatti una mescolanza di trasmissioni meccaniche e tubolari, di pregevole materiale fonico antico, sia pure manomesso, accanto a prodotti di fabbricazione industriale, spesso di scadente qualità
Il nuovo organo Callido
Lo strumento di Tarcisio Zordan venne usato con una certa regolarità fino agli anni ’90, quando i malfunzionamenti sempre più frequenti cominciarono a rendere problematico l’impiego, anche per i semplici accompagnamenti della corale parrocchiale, e quindi si fece sempre più evidente la necessità di qualche intervento. La scelta delle modalità con cui operare apparve subito un problema complesso e di non facile soluzione, a causa non solo della intrinseca complicazione costruttiva dello strumento “organo” in sé, ma anche e soprattutto per le molteplici stratificazioni prodotte dai ripetuti e sconnessi interventi subiti dallo strumento nel corso degli anni.
Un dato di partenza era però chiaro e difficilmente opinabile: lo strumento Zordan non poteva essere semplicemente riparato o restaurato. L’accettazione di quest’ipotesi avrebbe avuto come risultato, a fronte di una spesa comunque considerevole, uno strumento di nessun pregio musicale e di scarsa affidabilità. Nel frattempo, qualche rapida scorsa all’archivio parrocchiale forniva preziose notizie sulla storia dello strumento e sulla sua disposizione originaria, mentre un approfondito sopralluogo permetteva di accertare con precisione gli elementi callidiani (o comunque antichi) superstiti.
Maturò quindi la convinzione che l’intervento, oltre che approfondito e radicale per fornire adeguate garanzie di durata nel tempo, dovesse anche assumersi il compito di far riacquistare allo strumento una precisa fisionomia storica e stilistica, e conseguentemente un ben definito senso musicale e liturgico. Il punto di partenza doveva essere pertanto il recupero e la valorizzazione del materiale antico ancora esistente, da ottenere operando in duplice direzione: attuare un accurato e scrupoloso restauro delle parti antiche, e restituirne l’autentico significato inserendole in un preciso contesto che ne permettesse una adeguata lettura ed un uso stilisticamente corretto.
La ricostruzione integrale dello strumento, mirante a riportarlo al suo stato primitivo, così com’era nato nel lontano 1824, in un primo momento apparve come la soluzione più semplice ed efficace per raggiunge
re questo scopo, ma qualche riflessione successiva condusse ad ampliare il campo delle possibili ipotesi operative. Infatti, senza nulla togliere in linea di principio circa la sua validità, la soluzione del ripristino integrale presentava degli aspetti non pienamente convincenti: qualche dubbio sulla esatta tipologia di alcuni registri, la difficoltà di reperimento di precisi modelli su cui basare la ricostruzione, e, particolare non trascurabile, l’esiguità del materiale superstite: la pregevole cassa settecentesca, la “legatura” della facciata, il somiere di basseria (sia pure pesantemente modificato), circa 250 canne di metallo di piccole e medie dimensioni, le canne di legno dei Contrabbassi e del Tamburlano. Con queste oggettive ed inevitabili limitazioni la ricostruzione avrebbe comportato la fabbricazione a nuovo di circa 500 canne e delle parti meccaniche pressoché nella loro totalità. Si sarebbe prodotto in questo modo uno strumento nuovo nella sostanza, ma avente allo stesso tempo l’equivoca l’ambizione di rappresentare anche un valore storico-documentario, carente però dell’indispensabile autenticità.
Sembrò pertanto che le premesse iniziali potessero essere rispettate anche operando, per così dire, con una maggiore elasticità di intervento, mirando in modo trasparente e privo di equivoci alla costruzione di uno strumento che, accanto agli elementi di continuità con il passato, ponesse contemporaneamente l’accento sul suo sostanziale e inevitabile carattere di novità, evidenziando nell’impostazione fonica dello strumento, suddivisa in due corpi sonori, rispondenti a due tastiere, anziché a corpo e tastiera unica. Non si è voluto con ciò costruire per la parrocchiale di Pedavena uno strumento grandioso o, peggio, sproporzionato; si è però attentamente valutato il notevole ampliamento delle possibilità esecutive, (proporzionalmente ben maggiori rispetto al semplice incremento del numero di registri), offerte dalla distribuzione di due corpi sonori. Date le premesse, la progettazione doveva quindi necessariamente indirizzarsi verso uno strumento “in stile”, ispirato cioè a modelli storici ben precisi, che nel caso specifico sono stati ovviamente ricercati nella tradizione organaria veneta dei primi decenni del XIX secolo e, in particolare, negli strumenti costruiti dai fratelli Callido o a loro attributi.
La caratterizzazione stilistica si coglie già dall’aspetto esteriore, che evidenzia le nuove canne di prospetto in stagno, alla cui base sono disposte le caratteristiche canne del registro di Tromboncini, ma prosegue all’interno con gli aspetti più specificatamente costruttivi, che, lo ripetiamo, ricalcano i criteri tradizionali seguiti dagli organari veneti della prima metà dell’800.
L’organo Piccolo: si distinguono le piccole canne in legno del Violoncello e, procedendo verso l’interno, quelle del Fagotto (a sinistra), del Corno Inglese (a destra); le canne più lunghe sono quelle del Principale.